TWINAGERS
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12/05/08
Carpe diem: il nostro male
“Malinconia e taedium vitae: un motivo ricorrente tra
antico e moderno”.
Corriamo, insieme al
tempo. Corriamo, il battito all’unisono con le lancette. Corriamo verso la morte
con quest’andatura che alterna misteriosa momenti di lentissimo arrancare ad
attimi di furioso galoppo. Perché, alla fine, la meta è quella soltanto, che ci
pensiamo spesso curiosi o che rifuggiamo all’idea inchiodando lo sguardo alla
vita. Mors ultima linea rerum est disse Orazio. Quello che possiamo
decidere è la strada da percorrere e quello che possiamo tentare è fare della
nostra andatura un perfetto susseguirsi di passi che rispecchiano il battito
desiderato per il nostro cuore. Eppure non sempre ci rendiamo conto che è questo
ciò che poi farà della nostra la vita “desiderata”. Dietro quanti angoli si vede
il ragazzo con gli occhi rossi per la dose che guarda il muro senza distinguere
i mattoni? In quanti telegiornali appare la faccia scavata di chi ha ucciso il
padre, sparato alla moglie, smembrato il figlio? E per quanto ci si sforzi di
capire i perché, ad immaginare il senso del percorso che hanno scelto, è arduo
non distinguere altro che un piazzale immenso e desolato dove i soli segnali
sono i sassi e le buche, sotto un cielo che di azzurro non ha nemmeno il
ricordo. Ma forse non serve prendere casi così estremi per avere esempi di come
si possa rinunciare all’arbitrio sulla propria vita. Le città, i paesi, le case
sono piene di tanti che per pigrizia o vigliaccheria hanno rinunciato ad
intraprendere un cammino imboccandone un altro più agevole che il fato gli aveva
proposto, o uno che altri al posto loro avrebbero scelto; e per questo,
per quanto corrano irrequieti, agitati dalla stessa ”irrequieta inerzia” che
sapeva impadronirsi dell’uomo già da prima che Seneca le desse un nome, il
battito del loro cuore non accelera mai, neanche di poco, neanche di niente. E
vagano “senza meta dietro i loro impegni” come “formiche che si arrampicano
sugli alberi e di lassù tornano vuote a terra” (Seneca nel De tranquillitate
animi).
Eccola qua, la malinconia, che rode il cuore e spegne gli occhi, che si
impadronisce della mente e la tortura come un cancro quando decidiamo di ridurre
la vita all’esistenza, quando invece di scegliere ci accontentiamo, quando
invece di correre ci trasciniamo. Eppure non può esserci solo un momento, solo
una possibilità, perché nella vita facciamo così tante scelte che gli stessi
percorsi e bivi diventano infiniti e sempre scambiabili. Perché ci incateniamo a
una vita che non vogliamo, perché schiacciati dalla malinconia non diamo un
colpo di reni e ci liberiamo, buttandoci su un’altra strada?
“Nulla voglio sentire, nulla sapere che dia ristoro al mio male” diceva Orazio
(Epistola I,8), parlando di quel peso, di quel qualcosa che non lo faceva vivere
felice neanche fra tutti gli agi. Non ci si libera perché si ha bisogno della
catena dunque, non ci si libera perché fa parte della natura umana attaccarsi
alle sensazioni, di qualsiasi natura siano, che riescano a muovere l’animo; e
quanto poche sono le sensazioni, quanto maggiori i loro effetti, tanto più forte
sarà il nostro stringerle perché abbandonare anche quelle, pur se sono la causa
stessa dell’apatia, ci porta a temere che non proveremo più niente, come gusci
vuoti, e non provare più niente è ancora peggio della disperazione…è
semplicemente morte.
Serena F. IV F Liceo Alessi
Tema di studio comune ai licei Alessi e Lurçat
Professoressa De Petro (Lettere) in Italia e Professoressa Valder (Lettere) in
Francia
in preparazione : le produzioni scritte del liceo Murçat
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